Dopo il Novecento
Il Novecento è finito. La contesa generale che ne ha scandito il calendario storico è stata quella tra Capitale e lavoro: sterminate plebi hanno fatto il proprio ingresso sulla scena pubblica, si sono date la forma e la cultura di un proletariato maturo, hanno plasmato la vita e lo stile delle nostre democrazie, hanno rotto il gioco secolare dello schiavismo e del colonialismo. In quella lotta aspra e spesso sanguinosa sul nesso che lega lavoro e libertà si sono stratificate le nuove culture della modernità: l’utopismo e il riformismo dei nuovi movimenti di massa, il marxismo, il cristianesimo sociale, il radicalismo liberal-democratico.
Il Novecento è finito con la sconfitta del lavoro e la vittoria del nuovo Capitale finanziario. Tra le sue macerie rischia di rimanere sepolta la speranza di una società di “liberi ed eguali”, che pure illuminò l’intero secolo, mobilitando in forme inedite quelle energie sociali e quelle passioni individuali che cambiarono il corso della storia. La sinistra novecentesca è stata la proiezione sulla scena pubblica di una planetaria spinta di emancipazione sociale e di liberazione umana. Nell’esperienza storica degli Stati comunisti quella spinta è stata invece soffocata e capovolta, e all’annuncio del “regno della libertà” si è sostituita la cortina di ferro e la pedagogia dei gulag. Anche le socialdemocrazie, che hanno realizzato uno straordinario compromesso tra i diritti del lavoro e il mercato capitalistico, sono state travolte dalla forza rivoluzionaria che la nuova destra conservatrice mondiale traeva dalla crisi vorticosa dell’Est.
Il Novecento è finito con la sconfitta del lavoro e la vittoria del nuovo Capitale finanziario. Tra le sue macerie rischia di rimanere sepolta la speranza di una società di “liberi ed eguali”, che pure illuminò l’intero secolo, mobilitando in forme inedite quelle energie sociali e quelle passioni individuali che cambiarono il corso della storia. La sinistra novecentesca è stata la proiezione sulla scena pubblica di una planetaria spinta di emancipazione sociale e di liberazione umana. Nell’esperienza storica degli Stati comunisti quella spinta è stata invece soffocata e capovolta, e all’annuncio del “regno della libertà” si è sostituita la cortina di ferro e la pedagogia dei gulag. Anche le socialdemocrazie, che hanno realizzato uno straordinario compromesso tra i diritti del lavoro e il mercato capitalistico, sono state travolte dalla forza rivoluzionaria che la nuova destra conservatrice mondiale traeva dalla crisi vorticosa dell’Est.
Tra la “storia è finita” e la “guerra infinita” si è giocata un’intera partita di egemonia e di dominio degli assetti di potere mondiale. Il potere ha tramutato la propaganda in pubblicità, ha reinventato le forme dell’immaginario di massa, ha riplasmato i desideri collettivi, ha covato le “uova di serpente” di una nuova antropologia, consumista fino all’auto-cannibalismo e individualisticamente nevrotica: non l’egoismo maturo di marxiana memoria, ma un egoismo dissipativo e cieco, capace di trasmutare la libertà in una coazione infinita all’acquisizione di status symbol.
L’individuo, maschio e occidentale, compratore e venditore è il protagonista del mondo-market post-novecentesco. Un mondo soffocato dai gas serra, assediato dal cemento, avvelenato, desertificato, in piena crisi entropica. Il liberismo è stato ed è la narrazione “naturale” della vocazione alla libertà predatoria, e la sinistra si è data come compito quello di temperare il calore incandescente dell’umanità subordinata all’economia e dell’economia subordinata alla finanza. Anche la politica è mercato, mercato elettorale. Dimensione pubblica del totalitarismo del privato. Discorso pubblico sulla fine del primato del pubblico. Una modernità virtuale e veloce, incapace tuttavia di fare i conti con le proprie ascendenze arcaiche: in particolare gli effetti perversi del patriarcato in crisi e i suoi colpi di coda e il riproporsi del maschile
come primato, che intende sussumere il “femminile” come corredo e cornice, come allusione o “quota rosa”, senza mai mettere in crisi le forme del politico e una architettura istituzionale che è escludente. Il regresso a forme del diritto che evadono dai doveri dell’universalismo e riscoprono il fascino di una legittimazione legata alla stirpe, al sangue e alla terra. La criminalizzazione dei poveri, nelle forme di uno “Stato penale sovrannazionale” che usa i migranti come regolatore del costo del lavoro globale e come capro espiatorio di qualsivoglia psicosi sociale causata da qualsivoglia crisi. L’espulsione delle giovani generazioni dalla costruzione di futuro, in quanto la precarietà diviene un tema unificante l’intero tempo di vita, dal mercato dei lavori atipici alle devastanti solitudini metropolitane.
C’è un dolore incontenibile nelle forme antiche e nuove della “questione sociale”, nella geografia dei lavori frammentati e orfani di tutela, nelle stratificazioni del non lavoro, nello smottamento dei ceti medi verso le sabbie mobili dell’incertezza e dell’impoverimento, nella fatica di dare rappresentazione pubblica e valore politico a ciascuna di queste esperienze di vita dimezzata, di vita appesa, di vita a rischio. C’è un dolore persino straziante nello sfibramento della democrazia e delle sue istituzioni, nella crisi del costituzionalismo democratico, e qui in Italia nel violento precipitare in un “vuoto di democrazia” colmato dalla videocrazia, dalla censura di Stato, da poteri opachi (e talvolta eversivi) che si auto-legittimano nei modi di un moderno populismo reazionario. C’è un dolore anche inedito nella percezione della dissipazione irreparabile di vita e civiltà che si consuma nell’oltraggio alla biodiversità e nell’aggressione mercificante alla natura. Qui c’è il vuoto drammatico di sinistra.
Qui c’è per intero il senso e il bisogno della sinistra. Non la sinistra delle nostre biografie intellettuali, di tutte le nostre scissioni, del cumulo di torti e di ragioni che ciascuno di noi si porta addosso. La sinistra che raccoglie e moltiplica domande di libertà e di eguaglianza oggi più che mai soffocate e manipolate. La sinistra che ha bisogno di un popolo, il popolo ha bisogno di una sinistra nuova, dell’eguaglianza, non dogmatica, libera, plurale e unitaria. Ecco: noi vogliamo aprire il cantiere, non vogliamo chiuderlo. Vogliamo riaprire la partita, prima ancora che aprire un partito.
Vogliamo farlo in un percorso nuovo, in cui i luoghi che costruiremo non hanno la presunzione di essere autosufficienti e definitivi. Vogliamo un soggetto politico, ecologista e libertario, proprio per costruire un’alternativa al moderno capitalismo, che ci metta in cammino, che ci aiuti a incontrare tante e tanti che come noi, ma diversamente da noi, cercano il vocabolario della sinistra di un secolo nuovo.
Riaprire la partita
Con il congresso di Sel nasce in Italia un soggetto politico nuovo.
I nostri principi fondamentali sono pace e non violenza, lavoro e giustizia sociale, sapere e riconversione ecologica dell’economia e della società.
Il nostro orizzonte è un mondo futuro non dominato dalla forma di merce, nel quale il buon vivere sarà una funzione della conoscenza, della sicurezza, della bellezza, della convivialità; un mondo che metta in equilibrio città e campagna, ponendo un limite secco all’ipertrofia del cemento e della chimica; un mondo non dipendente dai combustibili fossili e dall’uranio; policentrico e tutore della variabilità: genetica, delle civiltà e dei linguaggi umani; capace di mettere al servizio di tutti la scienza, la tecnologia, la rete. Un mondo in cui venga bandita la miseria e la fame, e in cui la guerra diventi un tabù. Un mondo capace di guardare con rispetto e amore anche la dimensione del “vivente non umano”. Un mondo in cui venga pattuito un nuovo inventario dei beni comuni dell’umanità, non disponibili per interessi privatistici e speculativi, messi al riparo dall’egoismo e dall’avidità: beni comuni naturali, aria, acqua, foreste, spazio; accesso di tutti ai medicinali e alle cure sanitarie; equa distribuzione della conoscenza, dell’informazione, della tecnica.
La nostra missione è restituire la parola alle culture critiche europee, contribuire a costruire una nuova larga sinistra in Italia ed in Europa, contribuendo, nel nostro paese, ad un' alternativa politica, sociale e culturale alla destra. Una destra che, pur segnata dai contrasti interni e dalla incapacità di dare risposte positive al paese, è sempre più pericolosa per il disegno autoritario e antisociale che incorpora.
La connessione tra le tre parole-concetto che stanno nel simbolo del nuovo partito non è né scontata né storicamente sperimentata: della “sinistra” si parla nell’Europa di oggi per denunciarne la crisi; “libertà” è abusata da una destra pervasa di umori populistici, autoritari, clericali, xenofobi, razzisti, antisemiti, misogini, omofobici; “sinistra” e “ecologia” - nonostante il progredire di una coscienza di massa sullo stato critico del pianeta - continuano a vivere largamente in conflitto.
Fonderle in una cultura comune, un progetto ed una programma è una grande impresa inedita.
Siamo nel pieno della stagione della crisi della politica, e della crisi verticale della forma-partito. La crisi della politica ha ragioni profonde, di sistema. La globalizzazione neoliberista è stata una vera e propria rivoluzione conservatrice. Essa ha strutturato poteri – economici, finanziari, militari - più estesi degli Stati nazionali, più potenti di governi e movimenti politici. Le decisioni fondamentali non passano per la rappresentanza democratica e il costituzionalismo delle istituzioni pubbliche.
Le istituzioni politiche non si sono internazionalizzate come il capitale e la merce, e la democrazia è regredita negli Stati nazionali. Ma ci sono altri aspetti che hanno aggravato pesantemente la tendenza. Il primo è il processo di omologazione culturale e ideologica che ha visto convergere sotto le bandiere del liberismo gran parte della sinistra storica: questa abdicazione è stata chiamata “riformismo”. Il secondo è il progressivo dilagare della questione morale, che ha provocato in Italia il costituirsi di una parte della borghesia in “cricca”, e gran parte del ceto politico in “casta”. E’ così che i partiti attuali sembrano l’esatto rovescio dei luoghi di socialità, di gratuità, di solidarietà che ne hanno segnato la nascita il secolo scorso. La politica sembra restringersi a vuota immagine e di potere.
I cittadini e i lavoratori vivono tra adattamento, disincanto e protesta. Un nuovo soggetto politico nasce legittimamente se appare, ed è nella realtà, radicalmente controcorrente, cioè portatore di buona politica, di una riforma della politica. Fatti e movimenti politici vivi e innovativi continuano a nascere in piazza e sul Web: dal “popolo viola” alla sollevazione per la libertà della cultura e dell’informazione, dal referendum per l’acqua pubblica alle lotte contro le leggi “ad personam”, oltre al rinnovato protagonismo di settori del lavoro dipendente, sia pubblico, a partire dai settori della conoscenza, che privato, che hanno espresso in questi mesi una capacità di reazione imprevista, di cui la vicenda di Pomigliano è la più nitida e feconda espressione. Eppure, le estreme difese del lavoro si trovano spesso a doversi spettacolarizzare in forme inedite, segnalando per questa via il progressivo distacco delle forme di rappresentanza tradizionali, a partire dai partiti politici, ma che giungono fino alla crisi di rappresentatività espressa in molte vicende dai sindacati.
In Puglia, in controtendenza, sono emerse modalità organizzative vitali, affollate da giovani spesso al primo approccio con l’impegno civile e politico, come le “Fabbriche di Nichi”, che costituiscono una delle più significative novità della politica italiana, proprio perché sono svincolate da una logica immediatamente legata alla sfera politico-istituzionale.
Nella sua prima esperienza di vita, dopo la sconfitta del 2008, Sel ha provato con tenacia ad unire le forze della sinistra, ma la frantumazione ha fatto prevalere logiche identitarie e conservazione di nicchie ideologiche. Bisogna spezzare l’incantesimo. Tutte le espressioni organizzate della soggettività politica sono in crisi.
Lo straordinario movimento No Global – la “seconda potenza mondiale” dei primi anni del secolo - che ha mostrato di saper andare al cuore dei problemi, che si presenta in modi e forme diverse dal passato, dimostra, con le mobilitazioni contro il G20 e la proposta unitaria di partecipare alla mobilitazione europea dei sindacati oltre alle molte iniziative presenti nel resto del pianeta, la persistenza delle ragioni che lo originarono e che ancora lo innervano: lo straordinario successo della raccolta di firme per i referendum per l'acqua pubblica ne è una conferma. Non bastano partiti politici, in crisi profonda. Il compito attuale è di ricostruire una partecipazione democratica e di dare forza e credibilità ad un' idea di trasformazione, sia nei contenuti, che nelle pratiche. In particolare, riteniamo che ogni proposito di riforma della politica sia vanificato se non parte dalla centralità della democrazia, non solo quella rappresentativa. Per questo, così come sosteniamo l’indispensabilità dell’introduzione di meccanismi democratici nel mondo del lavoro, come il voto sui contratti, allo stesso modo pensiamo che oggi le forze politiche debbano promuovere, a tutti i livelli, strumenti di coinvolgimento e partecipazione, come le primarie, sia al loro interno che nella società in cui operano. Dobbiamo e vogliamo dare un’anima ed una speranza alla parola alternativa.
Sel deve mettersi a disposizione di un vero big bang, un nuovo inizio. Sel è una forza autonoma, nel progetto e nella sua organizzazione, ed unitaria nella ricerca di alleanze politiche e sociali che ricompongano la frantumazione presente. Intendiamo dare voce e rappresentanza a chi oggi non si riconosce nell’attuale panorama politico e che vuole ritrovare un’unità di popolo che dia respiro ad un progetto credibile e alternativo di governo del paese. Tutto il quadro immaginario di sistemi ipermaggioritari e bipartitici (nel quale è sorta e rapidamente tramontata l’illusione della autosufficienza del Pd) è fallito. C’è dunque da costruire daccapo un pensiero, un programma, un progetto, una leadership.
Ci vuole cultura e struttura. Ci vuole un’organizzazione, radicata e flessibile, giovane e coraggiosa: un soggetto politico che si metta in rete con tutte le esperienze innovative, e che tessa il filo delle idee e delle passioni autentiche. Che faccia della cooperazione la nuova modalità di vita associata. “Sinistra, ecologia e libertà” vuole essere il lievito e il sale della costruzione della soggettività di una nuova grande sinistra. La sinistra della libertà e dell’uguaglianza, del lavoro e dell’ambiente.
Un altro mondo è possibile
La pace è l’unica soluzione
Il nostro mondo è ancora funestato da guerre e ingiustizie drammatiche.
L’occupazione dell’Iraq, il conflitto afghano, che durano da quasi un decennio, sembrano inverare in forma paradossale la predizione minacciosa della “guerra infinita”. Il loro protrarsi non ha condotto a nessuna soluzione, ma ha solo spaventosamente aggravato l’instabilità di quell’area del mondo e le sofferenze di popoli che stanno pagando un prezzo inimmaginabile alle avventure guerrafondaie delle amministrazioni statunitensi. Il terrorismo, non solo non è stato sconfitto, ma ha trovato tra le sofferenze di milioni di persone nuove energie per perseguire i suoi disegni criminali.
L’aggressione sistematica del governo israeliano nei confronti del popolo palestinese non accenna a diminuire. Anche i pacifisti sono oggetto delle azioni militari del governo di Netanyahu, che non ha esitato a trucidarne nove sulla freedom flottiglia, oltre alle decine di feriti e alle centinaia di arresti.
Intanto non cessa l’espansione delle colonie e non si avviano nuovi e necessari negoziati per la pace, affinché due popoli possano vivere in due stati sovrani e reciprocamente sicuri.
In Iran, che continua a minacciare di dotarsi di tecnologie nucleari potenzialmente anche per impieghi militari, la repressione dei dissidenti è sanguinosa, così come lo è in molti paesi del mondo, che usano i conflitti geopolitici per coprire le sistematiche violenze cui sottopongono i loro popoli.
In questo contesto, non può che crescere la preoccupazione per un mondo in cui la violenza è sempre più presente e devastante, dove l’unica voce di bilancio in costante crescita è quella degli armamenti.
Siamo contro la guerra e contro il terrorismo, stretti tra loro da un indissolubile vincolo di morte. Aderiremo ad ogni iniziativa pacifista, per la prevenzione dei conflitti e per la loro negoziazione pacifica. Siamo per il disarmo e per un rigoroso rispetto dell’articolo 11 della Costituzione. Siamo per un sistema di difesa su scala europea, che bandisca ogni forma di interventismo a sostegno delle politiche seguite fin qui dall’Ue e dalla Nato.
Le crisi finanziaria, economica, ambientale
una stessa crisi
La crisi aperta nel 2008 con l’esplosione della bolla immobiliare americana è ancora in pieno sviluppo. La riacutizzazione del 2010, dovuta ai debiti sovrani europei (primo quello greco), è un episodio dello stesso evento mondiale.
Siamo di fronte ad una crisi di sistema e non congiunturale. La fase comincia con la “rivoluzione conservatrice” degli anni ’80 (Reagan e Thatcher), cui tentò di dare una proiezione millenaristica il manifesto neocon “New american Century”. Trent’anni di bruciante accelerazione della globalizzazione hanno portato il capitale finanziario al comando.
Il sistema ha sviluppato inediti caratteri predatori, ha enormemente aumentato la diseguaglianza, che nel caso specifico italiano è ai vertici dei paesi sviluppati, ha formato una superclasse che controlla gran parte della ricchezza del mondo e regge le sorti dell’umanità. L’ultima utopia che resiste è quella del “mercato autoregolato”.
Nella realtà in campo ci sono i puri rapporti di forza.
Gli Hedge Fund superano i 3.000 miliardi di dollari, circolano derivati pari a dieci volte il Pil mondiale, ogni giorno gli uomini producono l’equivalente di 150 miliardi di dollari e i soggetti della finanza possono mobilitarne trilioni.
Questa immensa liquidità è figlia dello sfruttamento: lo sfruttamento intensivo del lavoro umano e lo sfruttamento senza limite delle risorse naturali, materia ed energia. La svalorizzazione di lavoro e natura sono processi paralleli. Mezzo miliardo di lavoratori e lavoratrici di paesi di antica industrializzazione sono stati messi in concorrenza con due miliardi di lavoratori e lavoratrici dei paesi emergenti, facendone crollare il prezzo, e si sono contemporaneamente sviluppati sistemi energetici altamente dissipativi e inquinanti, fino alla possibile irreversibilità delle alterazioni della biosfera. Tanto da aprire nuovi interrogativi sul destino della civiltà umana sulla Terra.
Il movimento No Global è quello che ha compreso meglio le contraddizioni della modernità. “Sinistra, ecologia e libertà” nasce per raccogliere quei semi politici e per coltivare quella coscienza.
L’Europa tecnocratica e liberista si è indebolita e si è esposta agli attacchi. Chiediamo un nuovo europeismo
In questo tempo di crisi, le élite europee hanno scelto politiche recessive che hanno ancor più concentrato il potere di decisione nelle mani dei governi, sottraendolo al libero e partecipato dibattito pubblico europeo. Ciò è stato possibile per la lunga traiettoria tecnocratica e monetarista che ha contraddistinto il processo di unificazione. C’è una crisi di sovranità democratica, essendo i processi decisionali concentrati nei processi intergovernamentali (dominati dalle decisioni di Germania, Francia e Regno Unito) e nelle tecnocrazie (dalla Bce alla Commissione europea) ed una crisi di progetto e contenuti, essendo stata scelta la strada di politiche recessive e di ridimensionamento della spesa pubblica. Si tratta di avanzare una proposta nuova, sia nella direzione di costruire una nuova sovranità democratica dei popoli europei e dei parlamenti al livello dell’Unione, sia di promuovere una politica alternativa basata su un nuovo modello di sviluppo che si fondi sulla qualità ambientale e sulla giustizia sociale. Un nuovo europeismo si può costruire se si ripropone una soggettività sociale autonoma che rafforzi la rappresentanza dei lavoratori e delle lavoratrici europee. È necessario ricostruire una nuova coalizione del lavoro a livello continentale, che sappia innovare nelle pratiche e nei contenuti.
Da questo versante, la proposta di mobilitazione lanciata dai sindacati europei per il 29 settembre è un importante passaggio di consapevolezza della propria missione in questa fase. “Noi la crisi non la paghiamo” e “no alle politiche recessive” non sono solo slogan, ma programmi alternativi a quelli fin qui seguiti dall’Ue.
Usa e Cina giocano la partita strategica centrale. Duri competitori avvinghiati da interessi al tempo stesso contrari e congiunti. L’Europa, che è segnata da un declino epocale, è il terzo incomodo, che potrebbe, per il suo stesso modello sociale, introdurre molte varanti e alternative nella competizione globale. Dal punto di vista delle pure grandezze economiche, l’Europa non sta peggio degli Stati Uniti, sebbene questi ultimi, grazie anche alla politica economica di Obama, stanno privilegiando la ripresa economica, a differenza dell’Europa arroccata sul modello renano del rigore e dei tagli alla spesa pubblica. Eppure, il debito pubblico americano supera di un decimo quello europeo e il debito privato ha dimensioni da brividi. Ovviamente un attacco al dollaro e agli Stati Uniti è impensabile, per ragioni politiche e militari. Un attacco sull’Europa sì.
La verità è che è in atto esattamente un violento e prolungato attacco all’euro, all’Europa come soggetto politico e al modello sociale europeo. Quello che non è riuscito sostanzialmente in trent’anni alla destra politica, coalizzata di qua e di là dall’Atlantico, può riuscire alla superclasse dei predatori di Wall Street. Sotto l’attacco speculativo, la ricetta liberista e rigorista rischia di accentuare ulteriormente il profilo della crisi, tagliando sul lavoro, sulla domanda, sugli investimenti e sui servizi pubblici, con inevitabili effetti recessivi. E’ un circolo vizioso, in fondo al quale si profila la fine del sogno europeo.
“Sinistra, ecologia e libertà” nasce come formazione europeista. Unica Europa possibile è l’Europa della pace, della democrazia, dei diritti sociali e civili, della apertura alle culture del mondo, dell’accoglienza dei migranti in cerca di un futuro migliore.
La diseguaglianza spegne la speranza. Una prolungata disoccupazione di massa porta al divorzio tra capitalismo e democrazia
Su scala globale e in ogni singolo paese le diseguaglianze sono diventate abissi.
Ristrette minoranze posseggono quanto miliardi di esseri umani; si è in poche anni moltiplicata per centinaia di volte la differenza tra il salario di un lavoratore dipendente e un manager; la penuria d’acqua e di cibo, sprecati altrove, torna ad aumentare per interi popoli; l’accesso ai medicinali e alle cure mediche è per i più negato; le tecnologie si sviluppano rapidamente in una parte sola del mondo; sapere e informazione, nonostante la rete, sono inegualmente distribuiti; maschi e femmine godono di radicalmente differenti livelli di libertà personale, di accesso all’istruzione, all’indipendenza economica, al potere. La nostra specie sembra indifferente alla vera e propria ecatombe di milioni di suoi cuccioli, i bambini.
La crisi e le risposte politiche ed economiche che si stanno attuando aggraveranno la situazione.
I governi danno tutti per scontato che, con la crisi, anche in presenza di una significativa ripresa pluriennale, la disoccupazione sia inesorabilmente destinata ad aumentare. Dovunque, com’è ovvio, il colpo arriva prima sulle donne e sui giovani con contratto di lavoro flessibile, svelando d’un colpo la verità della “flessibilità”: non figlia della tecnica e della libertà, ma dell’assoggettamento del lavoro, fino al limite di un moderno schiavismo (che avvicina nella realtà giovani occidentali a migranti, realtà che viene coperta dalla sovrapproduzione di ideologie etnocentriche e razziste). Viene dato per naturale il fatto che tutto il surplus sarà destinato a profitto e rendita. L’esperienza storica dimostra che in queste situazioni mercato e democrazia possono separarsi, come è avvenuto in Europa tra le due guerre, e più recentemente in numerose formazioni asiatiche, peraltro con eccellenti risultati di accumulazione.
inistra, ecologia e libertà” si batte per ridurre tutte le diseguaglianze, contro la precarietà del lavoro e della vita, per la buona e piena occupazione.
La scomparsa della sinistra in Europa toglie chance a tutta l’umanità
La sinistra europea si è divisa tra una maggioranza che ha accettato acriticamente le regole della globalizzazione, e una minoranza che si è chiusa in posizioni irrilevanti e in aree marginali. Il pensiero unico è diventato egemonico. Si tratta di una vera e propria abdicazione, che lega il destino della sinistra al declino dell’Europa.
Il “riformismo” è diventata una strategia di puro adattamento, la corsa al centro una rinuncia all’autonomia politica e culturale. Così il lavoro si è dissociato dal grande tema della libertà producendo un arretramento della vita democratica dei grandi Stati e delle loro Carte fondamentali, prima di tutte la Costituzione italiana. Non vengono solo al pettine i criteri con cui a Maastricht si è disegnata la tela europea. Si subiscono le conseguenze di un prolungato dominio di populismi e tecnocrazie, e della assenza di una reale partecipazione popolare. Così, una sinistra senza popolo sembra soccombere alle presunte oggettività degli imperativi economici del rigore a senso unico, della riproposizione dei vecchi modelli di sviluppo, della speculazione finanziaria internazionale.
Nel momento in cui sarebbe più preziosa, per i popoli europei e per tutta l’umanità, la forza di idee e proposte, di un programma alternativo di uscita dalla crisi, la sinistra appare in generale assente, subalterna o minoritaria, silenziosa e rinazionalizzata. E così la crisi del neoliberismo, che ha condotto il mondo nella più grande recessione dopo il ’29, si sta risolvendo a destra.
“Sinistra, ecologia e libertà” nasce per dare un contributo affinché una sinistra di nuova ispirazione torni ad alzarsi in piedi e, nella grande complessità del mondo contemporaneo, torni a cercare strade diverse da quelle che fin qui battute dal capitalismo finanziario globalizzato.
2010 come 1929: se ne esce solo con una
Grande Riforma
Dopo il ’29, con Keynes e Roosvelt negli Usa e con il socialismo in Europa dopo la guerra, con l’intervento pubblico volto a sostenere la domanda e con l’edificazione del Welfare, cambiò profondamente l’economia, la politica e la natura della società.
E oggi?
Il primo passo urgente è fermare la mano alla speculazione finanziaria. Qualche provvedimento di freno agli eccessi di Wall Street è stato assunto negli Stati Uniti per iniziativa del presidente Obama. In Europa regna il caos. Il vertice prima G8 poi G20 di giugno, che ha disdetto gli impegni già assunti con gli Obiettivi del Millennio, ha assunto una linea che combina rigorismo sui debiti sovrani (dimezzare i deficit entro il 2013) e pavidità verso banca e finanza. Un colpo secco allo Stato sociale, una linea economica deflazionistica, la mano libera agli speculatori. Così non se ne esce. E’ necessaria un’azione politica del tutto diversa.
L’azione politica può essere efficace se mette in campo contemporaneamente un ventaglio di proposte incisive, che cambiano subito le regole. Sono tutte ipotesi note e da tempo sul tappeto. Occorre: separare di nuovo banche di risparmio e banche di investimento e di affari; limitare i bonus e i diritti di stock option di manager e banchieri: frenare gli hedge fund e i credit default swap (obbligare chi scommette sui derivati a depositare in banca il denaro corrispondente); vietare lo short selling (vendita allo scoperto); stabilire sanzioni pesanti a chi spaccia titoli spazzatura con rating positivi fasulli; istituire una agenzia di rating europea. E soprattutto: introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie. Si può cominciare con la proposta più semplice, che viene ampiamente promossa sul web: lo 0.005 su tutte le transazioni.
E una nuova Bretton Woods: se non c’è un nuovo accordo globale sui cambi, la guerra economico-monetaria, in presenza di capitali senza frontiere, può in qualsiasi momento trasformarsi in qualcos’altro.
Questo sarebbe un piano che limita le azioni predatorie dettate dall’avidità. Che frena libertà e velocità di movimento del capitale finanziario. Ma occorre guardare ancora di più al cuore del problema.
Da dove viene la liquidità praticamente illimitata a disposizione dei soggetti dominanti il mercato mondiale? Viene dall’illimitato sfruttamento di lavoro umano, materia ed energia.
“Sinistra, ecologia e libertà” unisce tre discorsi, che, per chi guarda la realtà senza lo schermo di cattive ideologie, non possono e non potranno mai più apparire separati:
Il lavoro degli uomini, i cicli naturali, una civiltà fondata sullo sviluppo di responsabilità, facoltà e libertà umane.
Un nuovo Stato sociale
Il Welfare è la più grande invenzione politica dell’età moderna. Storicamente, ha un impianto lavorista. Ha attraversato ovunque, nell’ultimo quarto del ‘900, una crisi fiscale. Ha subito l’assalto politico di una destra che –alzando la bandiera dello “Stato minimo” - ha a più riprese tentato di ridurlo a pure funzioni compassionevoli e assistenziali, depotenziandone la carica di portatore di nuovi diritti del lavoro e di nuovo diritto di cittadinanza. La crisi in atto ha spinto il governo americano ad un parziale rafforzamento, sta spingendo i governi europei ad un’opera di secca riduzione.
E’ evidente che si pongono comunque problemi di efficacia e di efficienza della spesa. Ma con la globalizzazione, quel modello è entrato in crisi. Spiazzato di fronte alle migrazioni di massa, alle domande nuove delle donne, alla crescente marginalità dei giovani, alle nuove povertà, alle diaspore particolaristiche. Il modello va ripensato, innovando l’idea stessa di Stato sociale.
Siamo per un sistema di welfare che non abbia nessun cedimento nei confronti di una pura riproposizione dell’impianto paternalistico, che si sfibra fino a diventare “Stato minimo”. Siamo perché si potenzi un welfare che promuova le persone e le loro opportunità, che sappia intercettare i cambiamenti della società e che metta al centro il bene comune. Un welfare che sia fattore di sviluppo e non spesa passiva, che sia pensato per i giovani e per la loro formazione, investendo direttamente su di loro e non su ipertrofiche agenzie generatrici di spesa inutile. Che sia un welfare capace di assumere la “differenza di genere” come cifra di una nuova organizzazione del rapporto tra domanda e offerta di servizi, di beni comuni, di diritti. Un welfare per le persone disabili, che garantisca loro la piena cittadinanza al di fuori di qualsiasi visione pietistica, facendo della “diversa abilità” la leva per un cambio radicale degli spazi e dei tempi del vivere associato. Un welfare per le persone anziane, a partire da una rivalutazione delle pensioni, che saranno pressoché scomparse per l’attuale generazione in età da lavoro, e per la garanzia della assistenza sanitaria pubblica. Un welfare per i nuovi italiani migrati sul nostro territorio, il cui contributo alla ricchezza nazionale non è paragonabile al bassissimo contenuto di servizi di cui sono destinatari.
Un welfare che sia finanziato attraverso un riequilibrio delle diseguaglianze, recuperando risorse dall’evasione fiscale e dall’emersione dell’economia in nero, a differenza della attuale strategia di tagli. Come è indispensabile finanziare la spesa sociale a partire da una tassazione sull’uso delle risorse, in modo da rendere più forte il lavoro e la produzione, che sono pesantemente tassate, rispetto alla rendita e al profitto, che nel corso di questi anni sono cresciute a dismisura accompagnate da una bassa imposizione fiscale e da una larga tolleranza all’evasione.
Anche sulle tutele del lavoro è ormai urgente approfondire una ricerca e una discussione. La crisi morde fino al punto da far raggiungere cifre record di lavoratori in cassa integrazione, in mobilità, disoccupati, donne e giovani inoccupati. Bisogna dunque mutare l’indirizzo generale dell’economia, ma anche ripensare il rapporto tra reddito e lavoro, tra norma e contratto, ridefinendo tutele universali di cittadinanza.
Sono sul tavolo numerose proposte di riforma orientate alla garanzia del reddito: reddito disponibile, salario sociale, salario minimo, reddito minimo garantito.
Bisogna scegliere, guardando ai bisogni e alla sostenibilità di lungo periodo.
“Sinistra, ecologia e libertà” promuove lo Stato sociale e si batte per un nuovo modello di Welfare capace di coniugare la tutela dei diritti del lavoro nelle sue varie forme, l’accesso al reddito e i nuovi diritti di cittadinanza. Lottare contro la moderna povertà significa abbattere il muro dell’analfabetismo anche tecnologico, distribuire i saperi, fondare la società della conoscenza, sentirsi consapevoli protagonisti delle reti che connettono frammenti di mondo e che connettono il mondo al futuro.
L’inclusione sociale non è un lusso
In questa crisi profonda della cittadinanza, la tendenza prevalente delle politiche pubbliche è quella di promuovere elementi crescenti di esclusione sociale. Dalla formidabile spinta progressiva della lotta alla povertà si è passati alla lotta contro i poveri, i poverissimi e gli emarginati. Le politiche di tutela sociale, che vengono ridotte per il circuito degli “inclusi”, vengono progressivamente azzerate per gli “esclusi”. Ciò che aveva distinto l’Europa dagli Stati uniti, per non tenere in conto paesi di minor densità democratica e civile, ossia l’universalismo dei diritti di cittadinanza, va progressivamente estinguendosi in crescenti settori della società.
Eppure, anche nel nostro paese, le curve distributive della ricchezza hanno code sempre più lunghe. Quando il 10% della popolazione detiene la metà della ricchezza nazionale, quando le stime più accertate indicano in otto milioni gli italiani al di sotto degli indici di povertà relativa e due milioni al di sotto di quelli di povertà assoluta (senza contare i tanti migranti che non appaiono neppure in queste statistiche) questa vera emergenza civile non può più essere affrontata con aggiustamenti ordinari. Una nuova politica di inclusione è oggi indispensabile ad ogni progetto di riforma positiva della società.
Eppure, l’elemento più devastante e premonitore delle future tendenze all’esclusione sono le politiche che producono più carcere. Si può passare, con il consenso di tanta parte della popolazione sedotta dalla retorica feroce della “punizione”, da uno “Stato sociale” ad uno “Stato penale”. Non si tratta solo di tipologie di reato o di sistemi penali, ma di una tendenza a rimuovere dalla società i rei, i diversi, gli ultimi. Negli Usa ci sono tre milioni di detenuti, ovvero quasi uno ogni cento abitanti, per lo più afroamericani e latinos, per reati legati ad estreme condizioni di esclusione.
L'autoritarismo sperimentato nel corso di questi anni con un sistema di norme tese a criminalizzare comportamenti sociali diffusi, come le pratiche antiproibizioniste, o per stare all'attualità di questi giorni, all'introduzione di strumenti di controllo sociale fortemente invasivi come la tessera del tifoso negli stadi, non ha portato ad alcun risultato. Proprio sul tema delle droghe abbiamo assistito, attraverso la legge Giovanardi/Fini, ad una vera e propria ossessione securitaria che ha aumentato a dismisura la carcerazione di migliaia di donne e uomini senza in alcun modo intervenire sia sulla prevenzione alla tossicodipendenza, sia nella lotta alle narcomafie. In Italia la cifra dei detenuti ha già superato i sessantamila, uno ogni mille abitanti, in maggioranza migranti e detenuti per reati connessi alla detenzione di stupefacenti e ai reati connessi alla condizione dei migranti (prima la Fini-Bossi e poi il famigerato “pacchetto sicurezza”). Nelle carceri italiane si vive in una condizione inumana e contro ogni dettato costituzionale. Ci si ammala e si muore. I suicidi e gli atti di autolesionismo negli ultimi anni sono cresciuti a dismisura. Un paese civile non può accettare una così profonda cancellazione dello Stato di diritto.
Sinistra Ecologia Libertà considera l'antiproibizionismo un valore decisivo alla propria battaglia sulle libertà individuali e collettive, e uno strumento per capovolgere a favore della responsabilità una società imprigionata dalla paura e dal controllo.
Siamo inoltri convinti che il pieno rispetto dei valori costituzionali di libertà e dignità della persona umana siano gli unici che possano ispirare ogni politica di limitazione delle libertà individuali.
Rispetto per la Terra, rispetto per l’umanità
Dalla nascita della nostra specie – l’homo sapiens antropologicamente moderno - sono passati 150.000 anni e 7.500 generazioni. L’impronta ecologica, cioè la pressione umana esercitata sugli ecosistemi globali, è già largamente superiore alle capacità del pianeta che abitiamo. Non è più sostenibile un sistema economico e sociale, fondato sulla riproduzione allargata di merci e retto dalla logica del massimo profitto, che sfrutta illimitatamente lavoro umano e risorse naturali. Apparteniamo alle generazioni che, in un lasso di tempo brevissimo, entro questo secolo, devono ritrovare un’armonia con la natura. Questo comporta una rivoluzione dell’agenda politica e un salto di paradigma mai visto.
Lo sviluppo ha incontrato i suoi limiti. Superati i limiti, si innescano processi irreversibili nei meccanismi di produzione e riproduzione della vita. Tre sono già stati superati: ciclo dell’azoto (di tre volte la sostenibilità, e vicino al limite quello collegato del fosforo); cambiamento climatico (il riscaldamento globale è cosa certa e un’ulteriore progressione è destinata ad effetti catastrofici); tasso di estinzione delle specie viventi (valore preindustriale 0.1-1.0 su milione, limite valutato 10, valore attuale >100).
Tre azioni diventano un imperativo categorico: 1) ridurre drasticamente la deforestazione e il degrado del suolo, soprattutto nelle foreste tropicali; 2) investire in modelli e pratiche agricole innovative e sostenibili; 3) passare ad un sistema energetico efficiente e a basso consumo di combustibili fossili. E l’idea che il nucleare sia una soluzione è da disperati: riempire il mondo di centrali e di scorie radioattive, usando l’uranio, un combustibile scarso destinato a esaurirsi rapidamente, non avvicina di un centimetro il problema principale, creandone un vasto numero di nuovi.
Le tecnologie disponibili per il risparmio energetico, per chiudere il ciclo dei rifiuti, per un cambio di fonti energetiche, ci sono e, con adeguati investimenti, possono essere rapidamente sviluppate.
La tecnologia è la risposta. Ma qual’era la domanda? La domanda riguarda una vita migliore, che merita di essere vissuta, per tutti e tutte. Consumi crescenti, grandi sistemi dissipativi di produzione, distribuzione, uso dell’energia portano al disastro e rendono la vita peggiore. Consumare tempo e informazione, piuttosto che materia ed energia, ricrea un equilibrio, e rende la vita migliore. Una vita migliore è dentro la prospettiva della riqualificazione urbana, e cioè efficientamento energetico, bioedilizia, solarizzazione strutturale, riuso del patrimonio abitativo. Il buon vivere significa investimento sulle reti del trasporto pubblico, restauro del territorio e del paesaggio, valorizzazione dei beni culturali e turismo sostenibile. Quella che è stata nella storia dell’umanità un’utopia diventa una strategia di sopravvivenza della specie. Principio di realtà e principio del piacere, in eterno conflitto, possono avvicinarsi.
Bisogna sconfiggere il mito della crescita come soluzione di per sé delle disuguaglianze. Nei paesi di più antica industrializzazione, in Europa e nel Nord America, se la ricchezza viene ridistribuita riducendo le diseguaglianze, ce n’è per tutti. In questa parte del mondo benessere, soddisfazione e felicità possono crescere incrementando la qualità sociale se si innova radicalmente il modello di sviluppo, tenendo in conto le differenze profonde che esistono nelle varie parti del pianeta.
"Sinistra ecologia e libertà” guarda alla rivoluzione più grande, che ribalta il sistema dei valori oggi dominante: dallo spirito della guerra alla cooperazione e all’empatia; dalla competizione alla convivialità, dal primato dei beni materiali alla conoscenza, alla cultura, all’arte.
Perchè l’italia torni ad alzare gli occhi
Salvare la Repubblica, costruire l’alternativa
Un Paese malato: il populismo moderno riproduce e aggrava le malattie storiche, la destra tenta un inedito esperimento di democrazia autoritaria
Il blocco formatosi intorno a Berlusconi ha operato una decostruzione della coscienza nazionale e della memoria storica, ha dato piena rappresentanza all’egoismo sociale, ha seppellito l’etica pubblica sotto la furbizia del privilegio e l’amoralità del potere. A metà della legislatura si vanno aprendo numerose crepe nella coalizione che sostiene il governo di destra. Ma è prevedibile che Berlusconi tenti di portare a fondo l’operazione, di dare forma costituzionale ad un regime che taglia le radici antifasciste della Repubblica, il fondamento nel lavoro, la separazione dei poteri. I valori costituzionali sono il cuore della mortale partita aperta.
La destra lavora ad un nuovo equilibrio. Il nuovo equilibrio prevede: Presidenzialismo e Parlamentarismo minimo, sottomissione della magistratura, smontaggio delle istituzioni di garanzia (Corte costituzionale). Un sistema dell’informazione omologato, “ad una dimensione”, controllato dal Principe, e un radicale depotenziamento della cultura (scuola, università, ricerca, arti). Sistemi energetici centralizzati e duri (fonti non rinnovabili, grandi centrali, nucleare) si integrano perfettamente ad un modello di democrazia autoritaria.
Gli stessi antagonisti che nel campo democratico si battono giustamente per il diritto eguale e la libertà d’informazione, hanno largamente smarrito la consapevolezza che esiste un nesso inscindibile tra l’articolo 21 e il 40 (diritto di sciopero) e il 41 (iniziativa privata e sua utilità sociale) della Costituzione, e il 18 dello Statuto dei lavoratori: un nesso inscindibile tra libertà e dignità del lavoro. Se si è contro la legge sulle intercettazioni e a favore dell’accordo di Pomigliano, socialismo e liberaldemocrazia perdono, insieme e irrimediabilmente, la posta intera.
Ma la porta ad una vasta riforma costituzionale in collaborazione con la destra berlusconiana è stata aperta dal centrosinistra a metà degli anni ’90, e formalmente mai richiusa. Si tratta di un errore di portata storica, che sarebbe dissennato ripetere. Bisogna contestare il punto ideologico centrale: non è vero che le debolezze della democrazia dipendono da una insufficiente concentrazione del potere, da un’impotenza del decisore. Punto talmente coltivato da trasformare per esempio la Protezione civile in un laboratorio di governo emergenziale, di un sistema di decisioni senza controlli. Esattamente al contrario, le debolezze della democrazia dipendono dalla opacità e dalla separazione del potere, dalla sua insufficiente diffusione e distribuzione
La libertà è partecipazione.
Il diritto “piegato” e l’illegalismo delle classi dirigenti
All’inizio del secolo scorso, Gaetano Salvemini bolla il governo Giolitti: “Governo della malavita”. Avrebbe dovuto vedere l’inizio di questo secolo.
All’inizio di questo secolo le mafie hanno dilagato, un potere criminale che domina il Sud (segnando la disfatta del meridionalismo democratico, che, salvo in Puglia, chiude con un secco passivo la pluriennale esperienza di governo di quasi tutte le Regioni e della principali città), è penetrato in profondità nel Centro-Nord e si muove in un orizzonte sovranazionale. Le stime del fatturato parlano di una cifra ben oltre i cento miliardi di euro. Il declino italiano si deve anche all’affermarsi di questo dominio, un grumo di violenza, di corruzione e di paura che avvelena l’economia e inquina la coscienza di massa e le relazioni umane. La sua influenza sulla politica e sul governo della Nazione è alla luce del sole ed ha nomi e cognomi.
La borghesia, largamente smarrita la coscienza di una funzione nazionale, si è sempre di più organizzata in gruppi di pressione, lobby, consorterie, cricche. Il grado di corruzione delle classi dirigenti è cresciuto rispetto alla stagione di Tangentopoli.
Lo stesso livello dell'evasione fiscale, cioè della rottura del principale patto sociale (stimato per il 2010 ad oltre 120 miliardi), è il capitolo di un tradimento, del riproporsi di quel “sovversivismo dall’alto” che Gramsci vide alle origini del fascismo.
Come allora, a questo corrisponde a livello di massa una caduta della soglia di percezione del primato della legge e del principio di responsabilità, un cedimento strutturale dell’etica pubblica che il blocco di destra usa come fonte generosa di consenso.
Cresce la percezione comune d’impunità per le classi dirigenti, a fronte di un’aggravarsi delle limitazioni dei diritti fondamentali per i più deboli. La condizione carceraria è il caso più evidente di questo doppio regime: deboli con i forti e forti con i deboli. Lì si assiste al compimento di una nefasta profezia, che vede interi settori della società condannati alla marginalità. Per le classi dirigenti le carceri sono vere e proprie discariche sociali e i centri di detenzione per migranti irregolari devono assolvere ad una aberrante funzione di colpevolizzazione preventiva, in particolare dopo l’introduzione nel nostro ordinamento del vergognoso reato di “clandestinità”.
Non si combatte la povertà, ma i poveri, che sono, come icasticamente li definì il presidente Sarkozy “racaille”, feccia. Il proibizionismo nei confronti degli stupefacenti ha rappresentato una potente incubazione di culture disciplinari e autoritarie: esso non serviva, come è noto, a sradicare un consumo di droghe che viceversa è stato alimentato nei mercati clandestini monopolizzati dalle mafie; il proibizionismo serviva a modellare quel dispositivo del “sorvegliare e punire” che conteneva una valore generale: criminalizzare serve a mirare il tema securitario su soggetti paradigmatici (i tossicodipendenti, gli irregolari, i clandestini). Insomma dura lex su ciò che si muove ai margini. Contemporaneamente si rendeva impermeabile all’esercizio del controllo di legalità il potere costituito. Così siamo precipitati in un regime di garantismo per i garantiti e di giustizialismo per i socialmente giustiziati.
Sel si richiama allo Stato di diritto quale fondamento di ogni discorso democratico. Il primo compito politico è fermare, entro questa legislatura, l’intero fronte della frana istituzionale e costituzionale.
Difendere l’unità di un Paese e di una Nazione
La Lega ha assunto un ruolo chiave nel governo di destra. Ha costruito negli anni – su un piedistallo di nuovi e antichi miti: territoriali (la Padania) e pagani (riti celtici e dio Po), xenofobi e razzisti, neoclericali e vandeani- una strategia di indipendenza e secessione del Nord. La promessa vera è di non pagare più tasse per mantenere i “parassiti” del Sud. Una promessa che suona alle orecchie di chi le tasse le paga e di chi le evade, di chi lavora e di chi sfrutta il lavoro, uniti in un sol blocco.
Anche il “federalismo” è diventato un mito, un mito dai contenuti incerti e minacciosi. Contraddetto dalla pratica supercentralista del governo in carica, e dal macigno caricato sulle spalle di Regioni ed enti locali dalla manovra economica. La sinistra ha una tradizione forte di autonomismo e autogoverno locale, che non va dispersa. Deve contrastare radicalmente la deriva castale e clientelare che la riguarda in tante parti del Mezzogiorno, nelle quali si convive pacificamente con la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta. E opporsi altrettanto radicalmente ad ogni soluzione che minacci l’unità del Paese.
La stessa manovra di Tremonti è recessiva, colpisce prevalentemente il lavoro pubblico concentrato nel centro-sud e gli enti locali (al Sud in evidente maggiore difficoltà), ma tende a scaricare il peso della recessione sul Sud e sui più deboli, nella speranza che la parte ricca del paese rimanga agganciata all’economia tedesca. Così, in un’Europa che si profila a più velocità, in Italia assistiamo al progredire di una vera e propria secessione economica, più reale del gran parlare di federalismo.
La divisione d’Italia non è un destino. L’Italia può avere un futuro in Europa e nel mondo: Nord, Centro e Sud separati, nessuno.
La crisi in Italia
L’Italia è uno dei paesi al mondo nel quale è cresciuta di più la diseguaglianza. Il 10% della popolazione più ricca possiede il 45% di tutte le ricchezze. I salari, terzi in area Ocse vent’anni fa, sono scesi al 23° posto. Fondamentale è il ruolo assunto dall’economia in nero, dal lavoro sottopagato dei migranti, dal rapido dilagare del lavoro “flessibile” (cioè precario), che ha ridotto la vita delle nuove generazioni in condizioni di assoluto assoggettamento. Riappaiono travestite da libertà o sotto il giogo della clandestinità, forme antiche di relazioni schiavistiche. Ciò significa che tutto il surplus è finito ai profitti e alle rendite, senza in larga parte trasformarsi in investimenti. Il carattere piramidale e castale della società italiana è diventato, in età moderna, bronzeo.
La politica economica di Berlusconi-Tremonti è tutta a carico dei più poveri e del lavoro, o con tagli diretti, o riducendo drasticamente l’offerta di servizi del welfare nazionale, regionale e locale. Ha un carattere puramente deflattivo che aggraverà la crisi.
Ma c’è un’altra domanda: com’è potuto accadere, in un paese che nel dopoguerra è diventato una delle principali economie al mondo, e nel quale è stata tanto forte la sinistra (più volte al governo, prima con il partito socialista, poi con i postcomunisti e i cattolici democratici), e con i sindacati più forti d’Europa? Perché non c’è una ribellione, perché i giovani sono remissivi e tanti operai votano a destra? Perché da tutti i governi hanno avuto, da una certa data in poi, più o meno le stesse cose:
precariato, bassi salari, lavoro alienato. Ma la destra, in assenza di conflitto sociale e di programma alternativo, ha offerto un inventario di nuovi nemici, trovati più in basso nella scala sociale, e i miti della fortuna, della ricchezza, del successo.
La costruzione di una sinistra nuova nasce in relazione ad una idea alternativa di sviluppo. Che chiede una guerra risolutiva all’evasione fiscale, ed una tassazione dei patrimoni e delle rendite a livelli europei. Energie rinnovabili, produzioni e prodotto meno energivori, nuovi stili e organizzazioni di vita. Scuola e università pubblica di massa e di qualità, formazione e ricerca scientifica sono i caratteri fondamentali di questa nuova sfida. L’università italiana può ritornare su livelli competitivi con i sistemi formativi di altri paesi, solo se riuscirà ad investire sulle nuove generazioni, che oggi sono bloccate in una condizione di precarietà e di subordinazione alle gerarchie accademiche più retrive. Oggi, più che mai, è necessaria un’occupazione non precaria, che valorizzi le capacità professionali dei giovani e restituisca loro la progettazione di un futuro per l’intero paese.
Affrontare la crisi italiana vuol dire dunque ridurre le diseguaglianze, distribuire giustizia, affermare il primato della legge; promuovere gli investimenti e l’innovazione, anche nei settori dell’impresa che oggi investe solo nella competizione al ribasso del costo del lavoro, seguendo la bussola della qualità. Bisogna restituire il primato al lavoro e al sapere, alla cultura e all’ambiente.
Per la ricerca di una nuova identità culturale
Il degrado morale del paese nasce con la perdita di dignità e soggettività del lavoro, con la decadenza della formazione pubblica e della ricerca, con l'abbandono delle nostre straordinarie risorse di memoria e di natura, con la perdita di solidarietà e di umanità. Persa la memoria di grandi narrazioni sociali e culturali si è diffuso un individualismo astioso, rancoroso e proprietario, alimentato da paure ancestrali contro ogni diversità e contro chi minaccia, con la sua sola esistenza e presenza, il territorio o la proprietà. Sono cresciuti egoismi e solitudini, vacui narcisismi e angosce esistenziali. Il tempo presente si è congelato nell’attimo freddo. Smarrita l’identità del passato, viene preclusa la progettazione del futuro da una precarietà esistenziale che ti schiaccia sul qui e ora. La fabbrica della paura ha costituito l’ossessione fobica contro lo “straniero”. Le destre hanno cavalcato questi sentimenti e hanno costruito così la loro fortuna in aree nevralgiche del paese
Questi veleni, così come il ritorno potente delle culture mafiose, hanno finito per imprigionare l’Italia e la sua creatività in una dimensione meschina. E’ come se le radici fondative della nostra democrazia fossero estirpate. Identità comunitarie chiuse e statiche hanno preso il sopravvento quasi a dispetto della vocazione mediterranea e della storia di relazioni ricche con i popoli che si affacciano sull’altra sponda del “mare nostrum”.
Oggi queste culture regressive condannano il paese ad una marginalità certamente culturale, ma anche economica e sociale. Sono una zavorra per il rilancio della nostra penisola. La sconfitta culturale della sinistra mostra forse qui il il suo punto più drammatico.
Non si risalirà mai la china se non si avrà il coraggio di ripartire dai braccianti neri che a Rosarno si sono ribellati allo sfruttamento della ‘ndrangheta, dai giovani di Libera che al sud come al nord si impegnano con un lavoro cooperativo e solidale per la libertà da ogni criminalità, dalla civiltà democratica del conflitto sociale, dalla lotta contro le ingiustizie e le discriminazioni.
Ricostruire una partecipazione democratica e dare forza e credibilità ad una idea di trasformazione è l’unica possibilità di rifondazione della sinistra.
Per l’alternativa
L’operazione tentata con la formazione del Partito democratico è fallita. Il Pd non è né maggioritario, né autosufficiente. Il sistema non è bipartitico, e non c’è al momento una coalizione di centrosinistra guidata da una riconosciuta leadership, armata di un’idea alternativa alla destra e competitiva elettoralmente. Il tempo stringe: la legislatura scade nel 2013, ma potrebbe interrompersi in qualunque momento, perché vengono al pettine i nodi irrisolti nel centrodestra, o magari per iniziativa dello stesso Berlusconi.
E’ tempo di muoversi. Per la leadership è impossibile immaginare un appalto ad una ristretta cerchia di ceto politico: occorrono le primarie. E presto.
Il problema più urgente è quello della costituzione di una vasta coalizione, della nuova strutturazione di un campo democratico e di sinistra intorno ad un progetto per l’Italia, ad un programma alternativo alla destra e al suo blocco.
Inseguire l’avversario sul suo terreno vuol dire consegnargli le chiavi di casa: il primato e l’egemonia, la maggioranza dei voti nelle urne e delle idee nella testa della gente.
“Sinistra, ecologia e libertà” nasce per rendere più credibile e incalzante l’opposizione al governo della destra, perché si possa subito aprire il cantiere dell’alternativa al berlusconismo, perché una nuova alleanza di progresso possa candidarsi credibilmente al governo del paese.
Sentiamo l’urgenza di costruire una proposta politica che sia innanzitutto un nuovo patto di popolo e un discorso di futuro rivolto alle giovani generazioni. Ci rivolgiamo all’intelligenza e alla passione dei tanti e delle tante che non si rassegnano ad un Europa chiusa nel fortino e ad un Italia assediata dai fantasmi di una destra reazionaria.
Siamo in campo perché possa rinascere nel cuore dell’Europa e dell’Italia una nuova grande speranza, una nuova grande sinistra.
Roma, 9 luglio 2010
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