Non era mia intenzione scomodare lo spirito liberista di Luigi Einaudi nel prendere a prestito, parafrasando, il titolo di una sua famosa opera – La terra e l’imposta –, ma quello cha va ormai affrontato è una questione di rilevanza storica nazionale, perché occorre ridisegnare, senza più indugi, un diverso rapporto tra lavoro, produzione e ricchezza. E se l’illustre economista e Presidente della Repubblica Italiana discorreva sul bisogno di difendere e premiare chi lavora e produce rispetto a chi vive di rendita, oggi si tratta, né più né meno, di tutelare la collettività nazionale rispondendo positivamente al disagio che questa esprime.
Il nostro Paese è il secondo in Europa quanto a dimensione del debito pubblico – 116% del PIL, ci dicono le statistiche – ma è, al contempo, il Paese europeo con il più alto livello di patrimonio privato: una ricchezza equivalente a quasi il doppio del nostro PIL annuo – un dato che ci colloca davanti a Regno Unito e Paesi Bassi.
E’ questa la ragione per cui l’Italia è stata in questi mesi al riparo degli attacchi speculativi che hanno investito prima la Grecia e l’Irlanda e poi, in misura minore, il Portogallo e la Spagna.
Fatta la somma algebrica del debito pubblico e della ricchezza privata, il nostro patrimonio netto è positivo: l’Italia rivela dunque una discreta solidità economica e finanziaria.
La spiegazione di questo fenomeno è, per certi versi, molto semplice: negli ultimi trent’anni di storia repubblicana, mentre i beni e i servizi pubblici venivano prodotti ed erogati in misura superiore a quanto consentissero le entrate fiscali, la ricchezza delle famiglie italiane è cresciuta a ritmi sostenuti.
La descrizione di questo processo economico deve essere però accompagnata da due considerazioni. La prima è che la crescita abnorme della spesa pubblica non è derivata unicamente dalla maggiore offerta di servizi e beni pubblici resi disponibili alla comunità nazionale ma anche, e in un determinato momento in modo prevalente, da uno spreco sconsiderato di risorse pubbliche derivante da fenomeni diffusi di corruzione, da comportamenti demagogici e illeciti. La seconda è che l’aumento della ricchezza privata ha interessato larghi strati della popolazione italiana; l’accresciuta disponibilità era sufficientemente diffusa da beneficiare non solo i ricchi ma anche il ceto medio e persino la popolazione italiana meno abbiente.
Questo stato delle cose potrebbe giustificare, almeno in parte, il prevalere di una certa repulsione per la cosa pubblica e l’affermarsi di una cultura del privato e della privatizzazione delle nostre esistenze vissuta come strategia utile e coerente con quanto stava accadendo nella società italiana. Affondano qui alcune delle radici del berlusconismo: fare da soli significava vivere meglio e con più risorse.
Questo modello è entrato negli ultimi dieci anni gradualmente ma inesorabilmente in crisi.
In particolare, per quanto riguarda la questione che qui ci interessa, è venuta meno la capacità propulsiva della ricchezza privata di crescere indipendentemente o a discapito della ricchezza pubblica. Anzi, per alcune categorie di persone fra le più povere del nostro Paese, quella tendenza si è invertita e anno dopo anno la loro ricchezza complessiva si è ridotta in modo rilevante. Disoccupazione, precarietà economica, riduzione del potere d’acquisto e di accesso ai servizi e beni essenziali, tutto questo si è tradotto direttamente o indirettamente in un crescente indebitamento privato e/o nella riduzione complessiva del patrimonio personale e famigliare.
L’insieme di queste difficoltà sociali ed economiche – le fragilità dei più deboli, i problemi del mercato del lavoro, i ritardi infrastrutturali di un’economia abituata a privatizzare i profitti e a socializzare le perdite – ha prodotto una domanda crescente e insoddisfatta di spesa pubblica. Una domanda non corrotta o demagogica ma reale: una domanda legittima e necessaria.
Le ipoteche storiche e i numeri dell’economia globale esigevano nello stesso momento una riduzione drastica della spesa pubblica anziché una crescita. A questa domanda – nei tempi ormai lontani di Maastricht – l’Italia tutta, e soprattutto l’Italia che lavora, rispose con sacrifici ingenti che consentirono di “rimettere i conti in ordine” – come dissero all’unisono in quegli anni Azeglio Ciampi e Romani Prodi.
Poi, mentre l’Italia arrancava nella competizione globale e nella definizione di un nuovo ordine economico internazionale a noi ostile, ecco abbattersi con tutta la violenza e drammaticità delle crisi capitalistiche ottocentesche, la doccia fredda del settembre 2008. Una crisi finanziaria, economica e sociale che ha bruciato, nel breve volgere di alcuni mesi, quote consistenti del benessere economico e sociale delle famiglie occidentali.
Di fronte alla dimensione della crisi, Stati Uniti, Francia e Germania non hanno esitato a intervenire con ingenti risorse pubbliche, per far fronte ai problemi e ai bisogni immediati dei loro cittadini e delle loro imprese. In Italia questo non è accaduto, e forse non era semplicemente possibile: il fardello del nostro debito pubblico storico ha impedito oggettivamente un intervento all’altezza della situazione.
Tempi migliori verranno – hanno recitato, anche negli ultimi mesi, il nostro ministro delle finanze e i guru dell’economia nazionale. Eppure – ahimé – è chiaro come il Sole che i limiti strutturali dell’economia italiana vanno al di là degli andamenti ciclici ordinari e straordinari. Peggio: il disagio sociale e la marginalità economica di intere fasce di popolazione rendono la loro e la nostra condizione di sofferenza una malattia cronica.
E’ dunque quanto mai urgente un intervento forte, energico, lungimirante di politica economica e di finanza pubblica. Ma con quali risorse, diranno subito i nostri lettori e gli accorti cittadini di questo nostro disgraziato Paese? Risorse non ve ne sono, è la risposta unanime. Anzi, per far fronte ai deficit di bilancio, nuovi tagli a trecento sessanta gradi si stanno già preparando: tagli alla scuola e alla sanità, tagli alla ricerca e al welfare, tagli alla cultura e ai servizi pubblici essenziali. Tagli e ancora tagli: sino a dissolvere non solo l’apparato statale e pubblico ma anche i meccanismi stessi della nostra convivenza civile.
E’ questo lo scenario nel quale vogliamo davvero incamminarci?
Occorre, ora e con molta determinazione, prendere atto che lo squilibrio prodottosi negli ultimi trent’anni deve essere interrotto e rovesciato. Il grande processo di redistribuzione delle risorse a beneficio dei privati e a danno del pubblico non può più continuare: perché è ormai in gioco la stessa sostenibilità sociale e civile del nostro Paese.
Si tratta non solo di proporre e applicare una misura di equità sociale e di perequazione nella copertura degli oneri collettivi, ma si tratta ancor prima di conservare e riprodurre le regole fondanti della nostro vivere comune.
La ricchezza pubblica è stata dilapidata in molti modi – corruzione, spreco, incapacità di una o più classi dirigenti; la ricchezza privata è stata accresciuta in molti modi – capacità di lavoro e imprenditoriale, posizioni di rendita e corruzione, spirito di innovazione e flessibilità, evasione fiscale e opportunismo. Ma questo squilibrio non può più continuare così. Altrimenti il nostro destino è segnato: una minoranza vivrà asserragliata in fortini urbani e in lussuosi quartieri residenziali, mentre la maggioranza si farà sempre più violenta, disperata, emarginata. E’ purtroppo uno scenario molto reale, che conoscono e sperimentano giorno dopo giorno intere società, dal Messico alla Nigeria.
Questo processo di redistribuzione del reddito in grado di “rimettere (socialmente) i conti in ordine” non può attendere e non può essere praticato solo attraverso gli strumenti esistenti.
Le imposte sul reddito intervengono regolando il flusso annuo della ricchezza. Anche questo è un obiettivo importante in un Paese nel quale l’evasione fiscale è stimata in 200 miliardi di euro; o quando assistiamo a forme più o meno occulte di elusione fiscale a beneficio dei profitti derivanti da speculazioni immobiliari e finanziarie. Ma non basta.
Gli stock accumulati – positivo quello privato e negativo quello pubblico – stanno condizionando le scelte politiche ed economiche di intere società.
E’ tempo che il loro contributo positivo sia rilevante. Per questo un’imposta patrimoniale ordinaria, capace di ridurre in pochi anni al 60% il nostro debito pubblico, è necessaria. Un’imposta ordinaria e non una misura pesante e una tantum, perché questo Paese ha bisogno di regole e di comportamenti virtuosi, senza giustizialismi di nessun tipo e tantomeno di un giustizialismo tributario. Ma occorre registrare che stiamo vivendo in una società in cui si può essere poveri lavorando e si può essere ricchi vivendo di rendita: e questo è sommamente ingiusto, diseducativo, incivile.
Una patrimoniale giusta nel metodo e ma soprattutto utile nel fine: perché abbiamo bisogno di più ricerca e istruzione, di più sanità e infrastrutture, di più servizi ai cittadini e di aiuti veri ai lavoratori in difficoltà.
Una società che vuole avere un futuro è una società nella quale la ricchezza o è comune oppure non è. Un Paese, invece, nel quale il 50% della ricchezza prodotta appartiene a meno di un decimo della popolazione, non è un Paese ricco; anzi è un Paese infelice, insicuro, in definitiva, un Paese povero.
Per questo è necessario ragionare di imposta patrimoniale.
Giampietro Pizzo
Tratto dal sito nazionale di SEL
Nessun commento:
Posta un commento
prova prova prova