Ci si perdoni la tigna con cui torniamo su un argomento già trattato ma il fatto che la parata militare del due giugno, cioè di questa mattina, si farà (a prescindere dai morti in Emilia e da uno sciame sismico che continua a infestare quella terra da più di una settimana, a prescindere dai diciassette morti e dai capannoni crollati addosso ai nostri operai) merita qualche riflessione in più.
La prima ha a che fare con i tagli decisi, bontà loro, dagli organizzatori della parata per risparmiar monete: non ci saranno in cielo i ghirigori delle frecce tricolori, non sfileranno i mezzi pesanti, i lancieri di Montebello e i carabinieri a cavallo. Con un risparmio totale di un venti per cento sui costi preventivati alla vigilia. Si è aggiunto che, tanto, parte della cifra era stata ormai impegnata e che comunque non sarebbero stati quei pochi milioncini di euro a risolvere il problema di un paese sull’orlo della bancarotta. Nemmeno la riduzione delle indennità dei parlamentari e l’adeguamento dei prezzi della buvette di Montecitorio salveranno l’Italia: ma si è scelto – giustamente – di tagliare quei costi perché a un paese a cui chiedi sacrifici e senso di responsabilità devi offrire anche gesti simbolici. Che portano poco alle casse della nazione ma molto al senso di responsabilità e di solidarietà collettivi.
Fu anche questa la ragione che convinse il presidente Scalfaro, il giorno del suo insediamento al Quirinale nel 1992, ad annunciare che la Repubblica sarebbe stata celebrata, da quel due di giugno in avanti, senza parate militari e senza pranzo di gala offerto al personale diplomatico accreditato ma piuttosto aprendo i giardini del Quirinale agli italiani. Fu una scelta e un gesto di sobrietà, peraltro in un tempo in cui i morsi della crisi erano meno violenti e la terra non tremava ogni notte come accade in queste ore. Ci si piange addosso a dir questo, come ammonisce il presidente Napolitano? Si piangeva addosso Oscar Luigi Scalfaro quando decise di ricordare i valori di una repubblica ferita dalla strage di Capaci chiedendo a tutti di fare il loro mestiere e il loro dovere senza parate lungo il foro romano? Io credo di no.
E non credo che si possa rinunciare a ragionare su altri costi, altre spese, altre urgenze senza considerarle – come sempre – fuori tema. La protezione civile ci dice che il danno quantificato di trent’anni di eventi sismici supera abbondantemente i cento miliardi di euro, senza considerare il costo delle vite umane e la perdita inestimabile del patrimonio artistico finito in macerie, anno dopo anno. La stessa protezione civile ci spiega che mettere in sicurezza l’Italia costerebbe non più di venti-venticinque miliardi, meno di un quarto dei danni subiti e pagati in questi anni.
Cosa c’entrano i terremoti con la parata del due giugno? Nulla, Dio ce ne scansi. E non c’entrano nulla nemmeno con le pazze spese per l’acquisto dei novanta F35 che andranno ad abbellire la nostra collezione di cacciabombardieri. I terremoti non c’entrano con gli ottanta miliardi che il paese versa obbediente ogni anno nelle tasche dei corrotti e dei corruttori, in attesa che l’avvocato Ghedini dia il via libera a una legge anticorruzione. I terremoti non c’entrano con i centottanta miliardi che i furbetti sottraggono allo stato ogni anno evadendo le tasse. I terremoti non c’entrano con nulla, ci mancherebbe. Ma allora, o ci limitiamo a fare sacrifici agli dei come i Maya per tener lontane quelle scosse dalle nostre vite oppure decidiamo che questi denari da qualche parte vadano recuperati. Anche, perché no?, dalle parate militari del due giugno.
Non è andata così quest’anno: pazienza. Ma siccome sono un inguaribile ottimista, sogno che il presidente che verrà si affacci dai balconi del suo palazzo per dire che la Repubblica la celebreremo ospitando nei giardini del Quirinale i trecento precari che lavorano all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e che per mestiere (non certo per stipendio ricevuto) dovrebbero aiutarci a prevenire i disastri. Quell’istituto ha i fondi bloccati da dieci anni: ricerca e prevenzione si fanno come si può, arrabattandosi o chiedendo un supplemento di senso di responsabilità a chi vi lavora. La Repubblica oggi sono anzitutto loro.
Claudio Fava
Tratto dal sito nazionale di Sinistra Ecologia Libertà
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